Di seguito il testo integrale dell’omelia pronunciata dal cardinale vicario Baldassare Reina nella Messa di oggi, 29 dicembre 2024, festa della Santa Famiglia di Nazareth, in occasione dell’apertura della Porta Santa nella basilica di San Giovanni in Laterano.
Con grande gioia abbiamo vissuto il gesto dell’apertura della Porta Santa nella nostra Cattedrale; con esso abbiamo voluto rinnovare la professione di fede in Cristo, Porta della nostra salvezza, confermando il nostro impegno a essere per ogni fratello e sorella segno concreto di speranza, aprendo la porta del nostro cuore attraverso sentimenti di misericordia, bontà e giustizia.
La nostra celebrazione assume una valenza ancor più significativa poiché si inscrive nella festa della Santa Famiglia di Nazareth, modello di ogni comunità domestica e specchio della comunione trinitaria. L’invito che si leva da questa celebrazione è quello di riconoscerci come famiglia di Dio, chiamata a crescere nell’unità e nella carità reciproca e di sostenere con la preghiera tutte le famiglie, in particolare quelle provate da difficoltà e sofferenze. Il gesto simbolico di alcune famiglie che hanno varcato la Porta Santa accanto ai concelebranti rappresenta un’eloquente testimonianza di questa missione, che avvertiamo particolarmente urgente nel nostro tempo.
La Parola di Dio proclamata ci aiuta a meditare sulla nostra identità di figli nel Figlio, chiamati a vivere come famiglia di Dio. La Porta Santa che abbiamo attraversato evoca quel gesto quotidiano che compiamo varcando la soglia delle nostre abitazioni. Questa porta, ora spalancata, ci ha introdotti non solo nella casa del Signore, ma nell’intimo del suo cuore.
L’apostolo Giovanni, nella seconda lettura, ci consegna un annuncio di straordinaria profondità: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1 Gv 3,1). Essere figli di Dio è una realtà fondativa che ci introduce in una relazione viva e trasformante con il Padre. La fede si configura come un’esperienza profonda di relazione, che ci inserisce nella dinamica della figliolanza divina. Questa verità esige una continua riscoperta, un ritorno incessante alla sorgente dell’amore paterno di Dio, che illumina il senso autentico del nostro essere e del nostro agire. In questa luce, la parabola del Padre misericordioso si offre come uno specchio nel quale siamo invitati a riconoscerci.
Per molto tempo l’interpretazione di questa parabola ha separato e contrapposto i due fratelli non cogliendo come entrambi condividessero la fatica di essere figli sulla base di un errore di valutazione nei confronti del padre. Ricorderete, la scena la prende il figlio minore che chiede la parte dell’eredità che gli spetta e parte, convinto che per sentirsi vivo e artefice della sua vita debba emanciparsi dal padre, abbandonare la casa in cui è cresciuto, il ventre che lo ha generato. Ci troviamo di fronte alla rappresentazione chiara del nostro tempo gravato dal peso di un equivoco: quello secondo cui Dio sarebbe il nemico della nostra libertà, l’ostacolo da rimuovere per sentirci finalmente artefici della nostra esistenza.
Tuttavia, anche il figlio maggiore, che potrebbe sembrare il modello di fedeltà e obbedienza, è prigioniero di un malinteso profondo. La sua vera condizione emerge chiaramente nella protesta rivolta al padre, quando il fratello minore fa ritorno: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (Lc 15,29). In queste parole, si svela un’obbedienza priva di amore, vissuta come servitù a una volontà percepita come dispotica. Entrambi i figli, dunque, finiscono per interpretare il loro posto nella casa del padre non come quello di figli amati, ma come quello di servi: il maggiore, dichiarando di aver servito e il minore, determinandosi a tornare a casa con l’intenzione di chiedere di essere accolto come uno dei salariati del padre.
La sorpresa, però, risiede nella risposta del padre, che interrompe il discorso del figlio minore e, rivolgendosi ai servitori, proclama: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24). Similmente, al figlio maggiore, che manifesta il suo risentimento, il padre risponde con tenerezza disarmante: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31). In queste parole c’è un richiamo profondo alla verità della relazione filiale: essere figli non è una condizione guadagnata o meritata, ma un dono che si fonda sull’amore incondizionato del padre. Questo malinteso sulla paternità ha conseguenze dirette sulla fraternità. L’incapacità di accogliere il padre come fonte di amore genera divisioni tra i fratelli, le cui fratture si manifestano con drammaticità. Il rifiuto di partecipare alla festa del ritorno del fratello minore si traduce in un rifiuto del legame di sangue: «Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (Lc 15,30). In queste parole, cariche di amarezza e distacco, risuona una negazione della fraternità, un “tuo figlio” che disconosce ogni vincolo con il fratello. Tuttavia, il padre, con un movimento restauratore, risponde: «Questo tuo fratello» (Lc 15,32), cercando di riportare entrambi i figli alla consapevolezza della comune appartenenza familiare.
C’è un dettaglio di questa parabola che ci invita a contemplare nuovamente l’immagine della porta, quella stessa porta che abbiamo attraversato e continueremo a varcare lungo il corso di questo anno di grazia. Nel momento in cui il figlio si incammina per tornare, san Luca sottolinea con toccante precisione: «mentre era ancora lontano» (Lc 15,20). Qui si rivela un tratto straordinario del cuore paterno: il padre non solo attendeva, ma vegliava con speranza incrollabile e, nel vedere da lontano il figlio, sente in sé fremere le viscere di compassione. Non indugia, ma gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia con infinita tenerezza.
Immaginiamo la corsa di questo padre che non si stanca di amare, lo vediamo avvicinarsi con le braccia aperte. Quelle braccia aperte sono la porta santa. Non importa quanto lontani siamo andati, non è rilevante cosa abbiamo fatto, sprecato o rovinato. Nel momento in cui abbiamo deciso di tornare non troveremo mai una porta chiusa, ma un abbraccio che accoglie e benedice.
La casa che ci attende non è altro che la dimora del Padre, il suo cuore, un luogo dove siamo visti anche quando ancora non riusciamo a scorgere Lui. È un cuore che si muove incontro a noi mentre siamo ancora distanti, perché Lui non si è mai separato da noi.
Vogliamo diventare pellegrini di speranza, di questa speranza, di un amore che non si stanca, di una salvezza ritrovata, di una famiglia ricostituita. Da quelle braccia aperte impariamo a essere chiesa, a divenirne il sacramento, famiglia del Dio che libera la nostra libertà verso il bene.
Non esitiamo a varcare la Porta che conduce al cuore di Dio, immagine viva delle sue braccia spalancate per accoglierci. Entriamo con fiducia, gustiamo e contempliamo quanto è buono il Signore (Sal 34,9); e una volta sperimentata la gioia di questa appartenenza filiale, diventiamo instancabili seminatori di speranza e costruttori di fraternità.
Varcare la Porta Santa significa accogliere questa chiamata e vivere come figli nel Figlio, testimoni del Padre che ci aspetta «mentre siamo ancora lontani» (Lc 15,20). È un invito a rispondere alla grazia di Dio con un cuore aperto, lasciandoci riconciliare dal suo abbraccio che ci restituisce dignità e ci rende capaci di costruire relazioni di fraternità autentica.
Oggi, mentre attraversiamo questa Porta che sono le braccia del Padre, il nostro pensiero si rivolge con particolare compassione a coloro che, come il figlio minore della parabola, si sentono lontani e indegni e a quelli che, come il figlio maggiore, portano nel cuore il peso di amarezze profonde e non si sentono più figli amati. Pensiamo ai malati, ai carcerati, a chi è segnato dal dolore, dalla solitudine, dalla povertà o dal fallimento; a chi si è lasciato cadere le braccia per sconforto o mancanza di senso; a chi ha smesso di cercare le braccia del Padre perché chiuso in se stesso o nella sicurezza delle cose del mondo. In questo mondo lacerato da guerre, discordie e disuguaglianze tendiamo le braccia a tutti; facciamo in modo che attraverso le nostre braccia spalancate arrivi un riflesso dell’amore di Dio. Non ci salveremo da soli ma come famiglia e allora è la fraternità che dobbiamo coltivare fino all’estremo delle nostre forze!
Resi figli nel Figlio, facciamo nostra questa missione e impegniamoci a vivere nella gioia del Vangelo. La nostra testimonianza, come quella di Maria e Giuseppe, sia luminosa e feconda, affinché ogni porta chiusa diventi una porta aperta e ogni cuore lontano trovi la via del ritorno nella casa del Padre. Amen.