30 Gennaio, una battaglia comune a laici e cattolici, credenti e non credenti

Borre

Nota dello Staff

I giornali dipingono coloro che si oppongono al DDL Cirinnà come dei retrogadi, integralisti, fermi al medioevo, segregati nelle loro chiuse comunità.

In realtà noi non siamo soli: ci sono tantissime donne e uomini non credenti che hanno capito quanto questo DDL sia sbagliato ed hanno percepito l’obbligo morale di opporsio.

Uno di loro è Lorenzo Borrè che ci ha raccontato le sue ragioni.

Il 30 gennaio sarò al Circo Massimo per dare voce e sostegno ad una mobilitazione che non ha per scopo quello di negare pretesi diritti, ma difende il concetto prepolitico di dignità della persona e l’idea che il vivente non debba cadere sotto il dominio della Tecnica.

L’art. 5 del DDl Cirinnà, se approvato nella sua attuale formulazione, consentirebbe infatti “l’adozione -da parte del partner dello stesso sesso- del figlio biologico dell’altro partner” anche nei casi in cui il bambino sia nato grazie al ricorso a procedure di maternità surrogata e di fecondazione eterologa, codificando il diritto di adottare un bambino che è stato reso intenzionalmente “orfano” di uno dei due genitori, e per l’esattezza del genitore “donatore” o “surrogante”, da parte di chi ha coscientemente fatto ricorso a una procedura di filiazione che porta alla espulsione, dalla vita del concepito, del genitore biologico (il quale dovrebbe poi essere “surrogato” dal partner dell’altro genitore biologico che ha fatto ricorso a detta procedura), il tutto in un contesto in cui , a fronte della vuota formula ideologica di “genitorialità intenzionale”, si vuole in realtà far passare il principio più brutale, ma aderente ai fatti, di “orfanizzazione intenzionale”.

Questa è la linea del Piave che l’ideologia del postumano intende sfondare: introdurre il principio che il rapporto di genitorialità, grazie alla Tecnica e alle possibilità economiche di chi vi ricorre, non presuppone genitori di sesso diverso, nè un legame genetico, essendo sufficiente l’intenzione di essere “genitore” (sic) di un “figlio”.

Non sono in ballo, dunque, le istanze di riconoscimento di applicazione di misure di solidarietà sociale tra persone dello stesso sesso, ma le fondamenta stesse dello statuto antropologico naturale: in buona sostanza il DDL in questione mira a accogliere nel nostro Ordinamento, in via indiretta o “di principio”, l’istituto della filiazione omogenitoriale attuata attraverso la fecondazione eterologa e/o la maternità surrogata e quindi a fondare uno statuto antropologico incentrato:

1) sulla “orfanizzazione intenzionale” del nascituro, al quale viene precluso -recidendolo- ogni legame con uno dei due genitori biologici e ciò, per quanto riguarda la maternità surrogata, in palese violazione del Sesto Principio della Dichiarazione Universale dei Diritti del fanciullo (secondo il quale “salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non può essere separato dalla madre”) e sulla negazione del diritto del nascituro a conoscere l’identità di entrambi i genitori biologici e a mantenere un rapporto affettivo con loro;

2) sulla sostituzione del legame socioaffettivo tra genitori con la regolamentazione contrattuale della intera procedura di PMA e sulla deresponsabilizzazione genitoriale del Donatore/Surrogante;

3) sulla sostituzione della sessualità riproduttiva con procedimenti standardizzati di produzione del vivente (peraltro non legati alla condizione di sterilità assoluta del singolo componente della coppia, ma alla semplice volontà di avvalersi di detta procedura da parte di coppie dello stesso sesso).

4) sulla mercificazione del vivente propria di dette procedure (utero in affitto, cessione di gameti). Il DDL denota dunque un’impostazione fondata, in ultima analisi, sulla rivendicazione di diritti che si basano sulla “cosificazione” (rectius: reificazione) dell’uomo, sottoponendo il vivente alla logica delle leggi di Mercato: come sopra accennato, infatti, l’intero sistema procreativo artificiale si fonda su un atto dispositivo del nascituro in cui il legame sociale e il rapporto sessuale generativo tra un uomo e una donna sono sostituiti da una transazione di natura privatistica che ha ad oggetto la produzione di un essere umano.

Sono questioni, quelle che ho citato, che non riguardano solo i cattolici o i soli credenti, ma che coinvolgono la cultura, l’antropologia, i legami sociali, l’idea di dignità della persona, elementi prepolitici e prereligiosi, su cui si basa l’idea di comunità e, in ultima analisi, l’idea stessa di democrazia fondata sul consenso e la libertà di uomini e donne liberi, liberi anche di amare, ma non di ridurre a prodotto merceologico un bambino.

Concludo questa mia lettera con le parole di un filosofo a me particolarmente caro, Pietro Barcellona, che con i suoi scritti mi ha aperto gli occhi e la mente sulla posta in gioco, queella che tutti siamo chiamati a difendere il 30 gennaio:

“Se noi stacchiamo il fatto procreativo dalla relazione affettiva e sessuale si può ipotizzare un futuro in cui la produzione degli esseri umani avviene totalmente attraverso le macchine. Una volta combinato tecnicamente l’ovocita e lo sperma, si procederà a costruire artificialmente degli esseri umani. La scienza potrà arrivare a questo.

Il problema non è impedirlo. La ricerca deve fare i suoi percorsi per capire quello che può della vita. Ma l’uomo non deve consentire che tutto ciò che è tecnicamente fattibile diventi lecito. […]

Il patrimonio genetico è un bene che appartiene alla collettività storica nella quale si è formato. Come debbono essere beni condivisi l’ambiente, le piazze delle città, aspetti della vita economico sociale, così ci sono questioni che riguardano la cultura e la antropologia che non possono essere a disposizione di una libertà senza limiti; . […]è veramente strano che da tante parti della società si invochi la necessità di misure contro la brutale logica dei mercati finanziari di sottrarre alle decisioni individuali tutto ciò che attiene al cosiddetto bene comune, e che si invochino giustamente limiti alla ricchezza in nome della solidarietà e dell’equità redistributiva, e che poi invece si affidi assolutamente all’arbitrio individuale ciò che riguarda la vita e la morte dei membri della comunità nazionale (intesa naturalmente non come organismo ma come insieme di gruppi).

Non ci si può battere per una visione solidaristica che tende giustamente a limitare l’arbitrio individuale nell’uso delle risorse naturali e poi si proclami la radicale libertà individuale nei campi della vita e della morte dove si sviluppa e costruisce l’identità culturale dell’intera società”.

Lorenzo Borrè

Ed è per oppormi a tutto questo che sarò al circo massimo