Nel deserto dei mercati


di Don Fabio Bartoli

Sarà stato perché la gran parte degli operatori dei mercati generali sono di lingua araba, sarà stato perché era tantissimo tempo che non celebravo la Messa da solo o forse perché durante la celebrazione invece che da un coro gregoriano l’accompagnamento era fornito dal rumore dei carrelli e dalle grida dei venditori, fatto è che nella mia prima Messa da cappellano dei Mercati Generali (un benefit connesso per motivi storici con l’essere parroco di S. Benedetto) mi sono sentito irresistibilmente come Charles De Foucauld nel deserto di Tamanrasset.

Intendiamoci, il pensiero era tutt’altro che sgradevole, ho sempre amato la spiritualità di fratel Carlo e l’idea di essere come lui un grannelino d lievito sperduto nel deserto non mi dispiaceva per niente, anzi, mi dava un senso di completezza, di autorealizzazione, di grande gioia. Così celebrando la Messa da solo pensavo che fosse molto bello che il corpo di Cristo tornasse ad essere spezzato là, in mezzo a tanta fatica, sudore, dolore e bestemmie e poco importava se ci fossero o no cristiani presenti oltre me, la potenza oggettiva del sacrificio eucaristico si stava comunque compiendo e stava comunque santificando quel luogo.

Con la patena e il calice sollevavo al cielo tutto quel lavoro, tutta quella folla umana, tutte le lotte, la rabbia, l’ansia, il peccato tutte le gioie e le speranze di quell’incontenibile formicaio che si agita e vive in quei capannoni. Era come il movimento dell’Incarnazione al contrario, Dio scendeva sulla terra e dalla terra saliva a Lui atraverso le mie mani tutta quella folla bellissima e dolente.

Nessuno scoraggiamento quindi, anche se la mia prima Messa a misurarla con i parametri della statistica è stata un fallimento assoluto, al contrario la sensazione netta e precisa di essere l’uomo giusto al posto giusto. E poi mi sono portato a casa due doni straordinari: il cipiglio di uno dei pochi cristiani (peraltro assente anche lui alla Messa) che mi diceva “non si spaventi padre, perché se ci molla lei qui non viene più nessuno” e il sorriso di un carrellista arabo (o forse marocchino) che invece di salutarmi come gli altri con un cerimonioso buongiorno “abuna” (padre in arabo) mi si è rivolto con un romanesco e affettuosissimo ciao zì’.

Si, ci vuol poco ad essere felici

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